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alla magìa. Potrei leggere cinquanta volte quei versi, la cinquantesima mi trovo più entusiasta della prima. Immaginate dunque se mi faccio pregare ad abbarbagliarvi un pochino con il saettìo tentatore dei brillanti che posseggo! Verrà il giorno che li avrete anche voi. Ma per ora contentatevi dei miei: i diamanti, si sa, non sono per le signorine.

Gabriele D’Annunzio è l’artista squisito della parola. Il Gautier solo può essergli paragonato. La lingua maneggiata da loro acquista un pregio così alto e maraviglioso e impreveduto che ci dà lo stesso stupore di quei gran templi del Giappone fasciati d’oro fino o di quelle lussureggianti foreste tropicali piene di strani uccelli e di fantastica vegetazione. L’oro fino lo conosciamo anche noi, ma noi lo economizziamo per i gioielli; e le piante esotiche e gli uccelli dai vivi colori adornano la nostra casa, ma come una rarità. Eppure tutto fiorisce e sorride negli stessi elementi, sullo stesso pianeta! E quel terreno ch’è più ricco del nostro, quegli uomini che sono più avventurati di noi!... Il D’Annunzio profonde i suoi tesori di gemme, di profumi, di tinte con un fasto asiatico e con una raffinatezza parigina. Sfoglia a migliaia le rose, per dormirvi su, da sapiente Sibarita; e ogni secolo, ogni plaga, ogni arte gli dona l’essenza migliore di sè per deliziare i suoi sogni. Un aroma antico e prezioso ci viene così dalle sue carte, un misto di sacro e di profano come quei bei cuscini che le dame eleganti tagliano in una vecchia pianeta e profumano di viola e di mughetto. Ma guai agli imitatori! Il D’Annunzio non è imitabile, e i suoi seguaci sono come i petrarchisti, odiosi.

Intanto io mi dilungo troppo... perdonate. Bastava