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quali alla più bizzarra meraviglia si mesce sempre un sottile soffio di semplicità domestica e sana che rischiara e riposa. Non so se sia da preferire nello scrittore il romanziere o il poeta, e, anche sapendolo, mi parrebbe un’irriverenza boriosa il trinciar giudizi in questi scorci alla buona. Mi limito quindi a leggervi qualche verso o a farvi notare i differenti aspetti che ho osservato in lui. Mentre nelle più belle pagine di «Malombra», di «Daniele Cortis», dell’indimenticabile «Mistero d’un poeta» egli ci inebria dell’infinito e ci ravviva lo spirito sino a farci del corpo una specie di simulacro, e, lievi, purificati, gloriosi, ci scorta fino all’estremo lembo della terra, fin dove appare non più come un miraggio, ma già come una costa lontana il paese dove ogni desiderio si sazia e si tace, nelle sue poesie è di una determinatezza lucente e chiara sebben lievissima e dilagante, un po’ troppo, anzi, qualchevolta. Ecco intanto un sonetto bellissimo:

IN SAN MARCO DI VENEZIA

Freddo è qual te il mio spirto, o cattedrale,
I tuoi mosaici misti d’ombra e d’oro
Somigliano i fantasmi ch’io lavoro
Del core nel silenzio sepolcrale,

Dove l’amor tace nascoso, quale
Il tuo di gemme inutile tesoro:
All’Ideal che spero, al Dio che adoro
V’arde sola una lampada immortale.

Talora per la tua porta che geme,
Entran lume di cielo, odor di mare,
Qualche figura taciturna e mesta;

Ed anche in me, talora, entrano insieme
Un folle arder vitale che dispare,
Un dolce viso tenero che resta.