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vano che il mio libro non era inutile. Anche più grate di queste mi furon le manifestazioni di gente del popolo, che mostravano di aver compreso come il sentimento dominante dell’opera mia fosse il rispetto e l’amore delle classi lavoratrici, dei poveri, dei deboli, degli sventurati. Tutte queste soddisfazioni mi furono ravvivate e accertate alla diffusione larga e inattesa del libro, la quale mi provava ch’esso era ispirato a un’idea superiore ad ogni grettezza o preconcetto di classe sociale o di parte politica. Ma la mia soddisfazione più profonda e più cara, ma la mia gloria più bella e più durevole fu di aver ricevuto da Forlì una breve lettera in cui la grande anima di Aurelio Saffi mi diceva con la sua nobile semplicità: Avete reso un servizio al nostro paese.»

Poi Olindo Guerrini con qualche motto soave pieno di pensiero, e Corrado Ricci, il valente pennelleggiatore dei tempi andati, che dà alla figura del Maestro un ultimo tocco sapiente.

«.... non dimenticherò mai la buona e cara immagine paterna di Aurelio Saffi. Parlando con lui il suo cuore v’aiutava a salire sino al suo intelletto.»

Viene quindi la balda falange dei giovani seguaci che depongono semplici e riverenti tributi: Livio Quartaroli, Giuseppe Ronchi, Giuseppe Brini, Camillo Ugolini, Roberto Ascoli con una «memoria» così colorita luminosa e leggiadra da farne ingelosire il suo volumetto di Rime; ultimo Ettore Sanfelice la cui eletta lettera può servire per sintesi di quanto ho osservato fin qui. Eccola: