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e crepacci. Temendo la nebbia si facesse più folta e m’anticipasse così l’arrivo della notte, m’affrettai a scendere, spinto anche dalla fame e da una sete eccessiva. Volli tentar la discesa dal lato di Vinca: non l’avessi mai fatto! Potrà darsi che una guida esperta sappia trovare fra quelle roccie dirupate la via; ma io, dopo essermi calato di picco in picco per quasi un’ora di cammino, mi trovai sopra lo spigolo di balzi erti, a un centinaio di metri d’abisso, nè v’era modo di proseguire. Un branco di corvi roteavano, gracchiando, intorno a quei macigni, quasi a scherno della mia impotenza; ed io invidiava le loro ali e appoggiato ad un masso sull’orlo di quell’abisso, li guardava pensoso. Fortunatamente la nebbia si era elevata a ravvolgere le estreme punte del Pizzo: vedeva le praterie sottostanti, più lontano le selve, e fra mezzo le aggruppate case di Vinca. Allenito ma non vinto, risolsi di riguadagnare la cima e rifare la via fatta poc’anzi per salirvi, non sapendo da che parte trovare scampo. Confidava che la nebbia non mi avrebbe frapposto ostacolo, vedendo come essa si sperdesse ogni poco ed ora salisse, ora si abbassasse, non tenendo mai luogo fisso.

«Mi tolsi le scarpe per meglio posare il piede e sostenermi; a mali estremi, estremi rimedi; e aggrappandomi ai grossi cespi d’erba, alle schegge sporgenti, giovandomi del fido e saldo bastone a punta di ferro (Alpenstock) in breve fui in vetta e ripresi a discendere per dove ero montato. Rividi con piacere un piccolo ometto di pietra che vi aveva poco tempo avanti eretto, salutai il mare, che la nebbia m’aveva ne-