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l’onorare l’intelligenza. Ne’ circoli del cardinal Ruffo (che i liberali consacrarono all’infamia, e che il Monti dichiara affabile signore, ministro integerrimo, savio politico), con Saverio Mattei, traduttore dei Salmi, disputò il nostro poeta sul potersi o no volgarizzare Omero fedelmente, e ne fece sin d’allora qualche tentativo. La casa di Maria Coccovillo, maritata in Giovanni Pizzelli, ornata di lettere e di scienze, sperta di molte lingue, e abilissima al suono e al canto, frequentavano i migliori d’allora, Canova, Visconti, l’Andres, il Cunich, il Serassi, il Puccini, la Dionigi, il Renazzi, il Requens, la Kaufmann, e vi leggeano loro composizioni Alessandro Verri, l’improvvisatore Berardi, il Battistini, Gherardo de Rossi: e quand’essa morì nel 1807 dopo disastri di fortuna, fu composta una raccolta di poesie in sette lingue su questa «donna contornata ogni giorno d’ammiratori anche dopo di aver oltrepassati gli anni settanta di sua età, circondata d’amici anche dopo di essere stata costretta dalle indigenze domestiche a trattar la calza e la conocchia; celebrata concordemente da nazionali e da stranieri, più forse ancora nella vecchiaja che nella gioventù, e più dopo morta che in vita».

Colà il Monti udì l’Alfieri leggere la sua Virginia, e s’infervorò ad emularla.

La tragedia doveva essere l’atteggiamento di qualche fatto sanguinoso, colle unità precettorie, ignote ai Greci, consacrate da’ Francesi per amor dell’ordine, dall’Alfieri per amor del difficile: dove le passioni degli spettatori fossero concitate, non importa se in bene o in male; meno importa ancora se colla verità storica. L’Alfieri avea scelto di qua di là alcuni nomi, e datovi un carattere secondo gli accomodava, sformando gli avvenimenti sino a fare di Lorenzo de’ Medici un mostro, di don Carlos un eroe, di Cosimo un parricida; avea ricalcato la tragedia francese, non solo sfrondandola di confidenti, di a parte, ma anche di tutto ciò che fosse lirico, stipandola in brevissimo tempo, pochissimi personaggi, azione semplicissima, e procedendo men tosto con azioni che con parole secche, epigrammatiche, tali che facessero pensare e lasciassero dall’attore supplire col gesto e colla voce e dall’uditore colla fantasia; nel che forse consiste la magia della riuscita di esse.

Sullo stile d’Alfieri il Monti pronunzia, sebben copertamente, nel discorso sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade: e lo definisce «unicamente sollecito dell’energia del pensiero, e nulla