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aonio paleario 251

trove, ed egli stesso ne fa professione1. Potrebbe dubitarsi che del suo nome avesse alcuno abusato, dopo che era morto?

Altre lettere scrisse agli eresiarchi d’allora; e nel 1566 erano portate e riportate da Bartolomeo Orello. In una «a Lutero, Melancton, Calvino, Butzer, e a tutti gli Svizzeri e Germani, che invocano Gesù Cristo», dissuade dall’accettare la convocazione del Concilio qual era fatta, ma che la riformassero; e li mette in sospetto della gran premura che n’ha il papa. Pontifex qui, id cetatis, non satis firma est valetudine, ne nocturnum quidem tempus sibi ad quietem relinquit, magnani copiam consultorum habet, quibuscum ad multam noctem sermonem producit; interdum autem jurisperitos, aut usu rerum probatos, aut astutos homines, addite autem si vultis improbos, consulti... advocat, orat atque obsecrat ut in communem curam incumbant2. Udito l’arresto del Carnesecchi, pensò garantire dall’Inquisizione la sua Accusa contro i papi, e col mezzo dell’Orello ne informò Teodoro Zuinger medico di Basilea; questi lo ringrazia della confidenza, loda la sua volontà di giovar alla causa di Dio, ma dice sarebbe meglio affidata l’opera a qualche maestro in divinità, come Sulcer o Coccejo, nelle cui mani starebbe sicurissima.

L’Aonio scrisse poi al senato di Milano come fosse accusato dal padre inquisitore a titolo d’un’orazione latina, scritta trentacinque anni addietro; laonde vedeasi molestato, e costretto separarsi dai giovani, ad istruir i quali era stato chiamato di Toscana. Ora dall’inquisitore con nuove lettere pressato di presentarsi a Roma, risponde trovarsi sotto gli ordini del senato, nè poter di sè disporre senza consenso di quello. Benché vecchio e di debole salute, non ricusa

  1. «Quoniam mei testimonii simililudinem non in verborum volubilitate sed in re ipsa positam arbilror, missa nunc faciain dicendi ornamenta, quse in alla causa fortasse me delectassent; in ea quse Christi est, qui istis adjumentis non eget, minime delectant. Quod eo facio libentius, ne quis putet me gloriae umbram quserere, aut aliud quid prseter gloriam Christi, qui per apostolum monet ne quis nos fallat sublimitate orationis. Tenue itaque atque humile dicendi genus sequar, et libenter profecto lingua vulgari et patria de his agerem, quominus viderentur hsec elaborata et inquisita industria, nisi apud «eos sermo esset, quorum nonnulli italice nesciunt latine omnes sciunt, etc.».
    La tradusse in italiano L. Desanctis (Torino, 1861), ma volle «mitigare alquanto quello stile aspro e qualche volta ingiurioso, che non si affà più alla civiltà de’ nostri tempi», che ognun sa quanto siano parchi in fatto d’ingiurie.
  2. Apud Schoelhorn.