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barnaba oriani | 201 |
De’ suoi viaggi confezionò un romanzo, l’Abaritte, che nessuno legge, ma donde appare come egli pure vagheggiasse quel rinnovamento della società, che parve effettuarsi coll’aprirsi degli stati generali a Parigi, ch’egli descrisse ma soltanto nelle forme esterne, e colle commissioni date dalle varie provincie a 5 deputati le quali poterono veramente dirsi il testamento dell’antica società, e la fede di nascita della nuova. Quei primordj della rivoluzione eccitarono vive simpatie in tutta Europa; il grand’oratore Fox, capo del partito liberale in Inghilterra, la salutò come il maggiore avvenimento, e il migliore dell’età moderna; Kant, in Germania, ne piangeva di gioja; a Pietroburgo si abbracciavano gli uni gli altri per le vie all’annunzio della distruzione della Bastiglia; altrettanto esultavasi a Brusselle e nei porti d’Olanda, per non dire della Svizzera e degli Stati Uniti; letterati, filosofi, studenti, framassoni vi vedeano i preludj d’un rinnovamento generale, tanto più promettente quanto andava più vago e indeterminato in quelle teoriche utopiste, allora spacciate dalla tribuna e sui giornali. Il Pindemonti coll’Alfieri, ch’egli giudica “il più grande dei grandi ingegni da lui conosciuti”, prese a Parigi entusiasmo per que’ lieti cominciamenti, e raccoglieva con repubblicana devozione i sassi della diroccata Bastiglia.
Ben presto l’agitamento cadde nella peggior plebe, e il Pindemonte ne sbigottì come la più parte; ed egli che, pure aveva a Ferney invocato il sublime spirto, diresse un sonetto all’ombra di Voltaire, evocandola a vedere i frutti de’ semi da lui gettati e il disinganno1. Deplorò la morte di Luigi XVI, di Maria Antonietta, della Lubomirski; e da Parigi guardava i destini delle varie nazioni, e tra queste l’Italia; che piangea forte e gridava:
Sia felice chi ’l può; poca in me resta |
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Ombra fatal che sulla negra antenna
Dal cupo abisso al patrio suol rivarchi,
Mira e poi dì se alla fatai tua penna
Dovea la Francia e simulacri ed archi, ecc.