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seguitare a dire una cosa perchè una volta fu detta. Noi accenneremo solo come allora una voce molto competente e abbastanza efficace fossesi elevata a Venezia contro le Accademie di Belle Arti, quasi istituzione preghidicevole non meno all’arte che alla società, e favorevole soltanto alle mediocrità. Le scuole di disegno, opportune anche agli industriali (dicevasi) si uniscano alle tecniche: chi senta sì prepotentemente chiamato all’arte si cerchi un maestro, mentre la folla de’ mediocri si ritirerà da un campo, dove non riuscirebbe che d’ingombro; così l’esercizio dell’arte perderà in estensione, ma guadagnando in intensità: e gli artisti non si troveranno nè legati all’imitazione di un professore, nè servili a un modello prestabilito da questo. I concorsi non fanno premiare che mediocri, i quali inoltre non sempre sono autori dell’opera presentata; mentre quel denaro potrebbe utilizzarsi in dar commissioni ai migliori; i soli che convenga incoraggiare nelle arti del bello. Insomma, vuolsi fecondare i genj, sottraendoli all’imitazione irrazionale di maestri e di modelli, e sbrattare l’arringo dalla turba mediocre, artigiana non artista.

Come in tutte le questioni umane, v’era una parte di vero, una di falso, che spesso non è se non l’esagerazione del vero. Ma la conseguenza immediata fu un decreto imperiale del 16 luglio 1858, con cui le Accademie di Belle Arti di Milano e Venezia venivano convertite in sezioni degli Istituti di scienze, lettere ed arti, con un regolamento diretto a “porgere all’esercizio delle arti belle e ai giudizj relativi, un indirizzo che valga a far rivivere le antiche glorie d’Italia nelle arti”.

Di questo, come di altri innovamenti portati da quel decreto, era affidata l’esecuzione al governatore generale, il quale per compirlo si dirigeva al secretano dell’Istituto Lombardo (quell’anno era io scrivente) perchè rolesse elaborare uno statuto da ciò.

L’incarico era consentaneo alla qualità e agli studj di esso secretano; nonchè l’avesse chiesto, era un servigio laborioso domandatogli, ma che offriagli il destro di migliorare istituzioni a lui predilette, senza legarlo ai dominatori: conscio del resto, anche per propria esperienza, che per far il bene, si deve affrontare il pericolo, fosse pure quello ch’è più temuto, d’un’impopolarità che separa ciò che stima da ciò che disama.

Lasciamo là l’idea di far prosperare il genio e rivivere le glorie artistiche mediante regolamenti. Sono consuete inesperienze di burocratici, ripetute e derise anche in odierni ministri. Ma l’avversione alle Accademie di Belle Arti era in quei giorni venuta di moda mediante il solito ciarlatanesimo de’ giornali; era stata soppressa quella di Firenze: proponeasi altrettanto per quella di Torino. Ma lo scrivente, men che il martello da distruggere amandola cazzuola per rimboccare, a chi avea suggerito l’abolizione delle Accademie del Lombardo-Veneto dichiarò che farebbe rientrar per la porta quel ch’erasi gettato per la finestra. Del resto trovava tutt’altro che sconveniente l’unire all’Istituto l’Accademia delle Belle Arti; unione che vedemmo stabilita già nella sua creazione, e che era comune ad altri corpi