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vincenzo monti | 133 |
l’udirlo lamentarsi che, perduto pe’ rovesci politici il meglio di sua fortuna, gli fosse forza riparare a’ suoi bisogni col lavoro della penna; eppure non lascia trapelare i pungenti ricordi dell’ingratitudine
se continuasse il Bardo. Il Lampredi, che pur avea svillaneggiato quel poema come una sbandellata, pure ve l’esortò: ma Vincenzo gli rispose: — Che vuoi? costui fa delle cose da raffreddare un vulcano. Non vedi cos’ha fatto in Ispagna e con quella famiglia? Non vedi ch’egli precipiterà sè e la famiglia sua, e noi quanti siamo a lui devoti? La sola buona cosa che ha fatto è l’organizzazione di questo regno d’Italia: ma poi come tratta noi italiani? Egli si rende nemici tutti i re d’Europa, che alla fine trionferanno. E noi tutti precipiteremo con lui».
Fu atto pio quel d’un romano che fece l’apologia del Monti, ma essa si riduce a mostrare che, nelle sue variazioni, non fu vile e amò sempre l’Italia, il che noi avevamo detto e ripetuto. Egli reca un giudizio del Giordani, che non conchiude altrimenti.
Studiò di non dispiacere a’ potenti: e perchè il giuoco di fortuna è insolente, e spesso nel suo teatro gl’istrioni si cambiano, perciò il buon Monti, necessitato di voltare quando a ponente e quando a settentrione la faccia, non potè sfuggire dal biasimo di quelli che nel poeta vorrebbero gravità e costanza di filosofo; e a lui diedero cólpa di mutate opinioni. Ma egli non vendette la coscienza, non mai, nè per avarizia, nè per ambizione; e nemmeno si può dire che mentisse a sè stesso. Lo fece apparire mutabile una eccessiva e misera e scusabile timidità; la quale egli stesso confessava ai più stretti amici dolente. E si consideri che a lui già famoso non sarebbesi perdonato il silenzio. E si guardi che, s’egli variamente lusingò i simulacri girati in alto dalla fortunevole ruota, non però mai falsò le massime, non raccomandò l’errore, non adorò i vizj trionfanti, non mancò di riverenza alle virtù sfortunate; sempre amò e desiderò che il vero, il buono, l’utile, il coraggio, la scienza, la prosperità, la gloria fossero patrimonio di nostra madre Italia. Insomma chi ha conosciuto intimamente e considerato bene il Monti può dire, che le molte ed eccellenti virtù che in lui il mondo ammirò, e i tanti suoi amici adorarono, e quel non molto che alcuni ricusarono di lodare: quella vena beata di poesia e di prosa, quella splendida copia d’immagini, quella variata ricchezza di suoni, quella arguta abbondanza di modi in tante differenti materie; e similmente quelle ineguaglianze e dissonanze, e quasi quei balzi di stile; quell’audacia talora di concetti scomposti e di figure meno vereconde; e così quella facilità e mobilità di affezioni; quelle paure con piccolo motivo, e così tosto quegli ardimenti con poca misura; quelle ire subite e sonanti, con quella tanta facondia nell’ira; quelle amicizie sì prontamente calde, e sì fluttuose; quella modestia e semplicità di costumi; quella sincerità candidissima; quella perpetua ed universale benevolenza; quella, per così dire, muliebrità d’indole (che pareva più notabile in corpo quasi di atleta, e nella poetica baldanza dell’ingegno), tutto nel Monti era parimente cagionato da prepotenza di passiva immaginazione. La quale dopo molti anni egli seppe frenare ed ammogliare al giudizio; sommettendola a studj potenti, benchè tardivi: grande maraviglia a tutti, che paragonavano lui lungamente giovane a lui tardi maturato scrittore».