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128 | illustri italiani |
e la sibaritica spensieratezza del Metastasio, ma una melanconia rassegnata, un riconoscere da per tutto l’ordinamento provvidenziale, un valutar le azioni dal loro fine o particolare o complessivo.
Da ciò nuovi canoni del bello. Al fin del secolo passato voleasi tutto ragionevole: artifiziavasi un concetto, combinavansi i modi d’effettuarlo; voleasi evitar i difetti, non urtare il freddo giudizio degli spettatori. Anche le belle arti pretendeano la ragione; non abbandonarsi a gusti, sentimenti, impressioni plastiche, derivanti dall’intimo dell’artista; non avventurarsi a render sensibile ciò che, nelle realità, aveva operato su di esso, bensì idee metodiche, produzioni convenzionali. Fin per commuovere non si ricorreva a ciò che erasi sentito, ma a ciò che avea commosso o commoverebbe altri.
Adesso invece si volea ripiegarsi sovra sè stessi; meditare i sentimenti e gl’istinti, le verità e gli errori di ciascuno e delle moltitudini; fissar gli occhi sul popolo; gli avvenimenti riferire a un tempo e a un luogo; le regole prendere come una storia di ciò che fecero i migliori, non come un ceppo ai piedi di chi s’arrischiasse al nuovo; nei classici rispettare il bello senza venerare ciecamente ogni cosa; ispirarsi da essi per far diversamente e per raggiungere la novità; considerar lo scrittore quale interprete dell’idea divina posta sotto finite parvenze per rivelar l’infinito, e che svolge ed esprime i caratteri distinti e durevoli del mondo, sicchè dall’opera sua si possa dedurre una teorica dell’uomo e della natura, come un ritratto della sua età e della sua stirpe. Le contorsioni dell’Alfieri come la prodiga fluidità del Monti non pareano da imitare; nè quello sfumar ogni tinta risentita, nè il soffogare le ardite fantasie sotto al freddo convenzionale, la franchezza dell’espressione sotto a pallide circonlocuzioni e lambiccature da accademia o da Corte: abbandonando le forme convenzionali, l’ambiziosa fraseologia, la burbanza percettiva, rivendicavasi la semplicità de’ primi nostri scrittori; affrontavasi la parola propria, la maniera più schietta, raccolta dal labbro dei parlanti, interrogando come i sentimenti così il linguaggio del popolo; voleasi scegliere sì la natura, ma non cangiarla; tornare la poesia qual era in Dante, fantasia subordinata alla ragione.
Milano, come di tant’altre, così fu l’arena di queste abbaruffate, e la ingenita lepidezza e il sentenziare scettico e beffardo impacciarono non poco il trionfo del vero.
La consorteria del Monti non volle vedervi che un’insurrezione