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le forbite grazie d’un secolo squisito e d’un gusto schizzinoso, restò l’opera più compita del Monti, e l’Italia l’accettò, per quanto altri siasi accinto da poi a vulgarizzarla più fedelmente1.

  1. I poemi omerici furono tradotti anche dal cavaliere Mancini di Firenze, e la Biblioteca Italiana, tornata amica e ligia al Monti, lo stramazzò schifosamente, e il Monti vi contrappose un saggio di sua traduzione dell’Iliade in ottave. Egidio Fiocchi, professore a Pavia, volgarizzò pure i poemi omerici, e il Governo mandò la sua versione da esaminare all’Istituto Lombardo-Veneto, una cui Commissione ne pronunziò questo giudizio, che per molte ragioni non si troverà fuor di proposito:
    — Gravoso veramente ed increscevole diviene l’uffizio di letterato quando, esente, com’esser debbe, da sdegno, o da parzialità, è obbligato a pronunciare, secondo il proprio giudizio, sentenza sopra opere d’autori viventi. Ma in un articolo d’un giornale, o in altre scritture, può cautamente esporre una opinione, quando sia duopo, anche poco favorevole, e temperare o velare con accorte frasi la censura od il biasimo, senza mancare nè poco nè punto alle leggi che a’ critici sono prescritte. Non così può adoperare chi, per dovere del proprio istituto o per ordine del Governo, è chiamato a esaminare e a giudicare il merito altrui con giusta bilancia: colpa è per lui ogni ambiguità ogni simulazione, ogni artificio che per poco illudesse il magistrato, che ha diritto di conoscere la verità, o almeno l’opinione sincera, qual ch’ella sia, de’ soggetti chiamati a spiegare un parere.
    «Tale appunto è la condizione nostra, essendoci commesso di riferire sul merito delle traduzioni de’ poemi omerici e del supplimento di Quinto Calabro, pubblicati dal professore Fiocchi, e noi adempiamo colla debita lealtà e franchezza alle intenzioni dall’I. R. Governo manifestate, dichiarando quello che, secondo le cognizioni nostre, sentiamo su quel proposito.
    «Se si chiamano ad esame come traduzioni le poetiche fatiche dell’editore, non è facile ravvisare in esse quel carattere e quel pregio, che in così fatti lavori precipuamente ricercansi. Gran torto ebbe il traduttore credendo che lunghi poemi, siccome son quelli, potessero mai specchiarsi in una versione schiava dell’ottava-rima. Potea, se non la ragione e l’esperienza sua stessa, ammonirlo e sgomentarlo l’esempio del Bugliazzini, del Grotto, di Bernardino Leo, del Tebaldi, del Bozzoli, il nome de’ quali (per quest’improbo sforzo di serbarsi, se fosse possibile, fedeli al testo omerico, allargandolo o stringendolo secondo che esigevano le regole imperiose d’un metro così difficile per le rime e per la struttura) non ha punto acquistato di fama, e si rimase colle lor opere dimenticato o negletto. Se tanto studio s’è posto, e molto s’è scritto, per rendere in buon verso sciolto il primo verso dell’Illiade senza aggiungere o togliere all’esatto senso de’ vocaboli greci, come sperare, e in quel verso e nelle altre migliaja, di cogliere la palma di ben volgarizzare poeticamente e rappresentare Omero? E come pretendere che in otto versi, sempre dalle rime posti alla tortura, si chiudano, senza amplificazioni inopportune, senza sostituzioni di parole o d’immagini meno adatte o felici, i pensieri e le frasi così giuste e perfette dell’inimitabil modello? E non conseguendo nel modo men riprovevole l’intento, perchè accrescere il numero delle traduzioni imperfette e infedeli, senza vantaggio di chi studia, e senza diletto di chi ha studiato? Nel giornale della