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50 illustri italiani

non possono aver poeti, in grazia della loro loquacità1. Insomma lascia trasparire che quel che meno gl’importa è la quistione grammaticale; ma sovratutto condanna i Toscani perchè arrogantemente si attribuiscono il titolo del vulgare illustre, il quale, a dir suo, «è quello che in ciascuna città appare ed in niuna riposa; vulgare cardinale, aulico, il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia in niuna; col quale i vulgari di tutte le città d’Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare». Per diservire la sua patria, ne depompa il linguaggio; i dialetti disapprova quanto più s’accostano al fiorentino, eppure insulta ai Sardi perchè dialetto proprio non hanno, ma parlano ancora latino: loda invece il siciliano, dicendo che così si chiama l’italiano e si chiamerà sempre; eppure all’ultimo capitolo mette il parlar nostro, quod totius Italiæ est, latinum vulgare vocatur; e semprechè gli cade menzione del parlar suo o del comune italiano, lo chiama vulgare, o parlar tosco, o latino, e neppur una volta siciliano.

A sostegno del suo sofisma reca poche voci di ciascun dialetto, prova inconcludentissima; e versi di poeti di ciascuna regione, lodando quelli che si applicarono a cotesta lingua aulica, riprovando quelli che tennero la popolare, massimamente i Toscani. Nulla men giusto che tali giudizj, e basta leggere anche solo le poesie da lui addotte, per vedere che le toscane popolesche sono similissime alle cortigiane d’altri paesi: donde deriva che il cortigiano d’altrove, cioè lo studiato, era il naturale vulgato di Firenze2.

Malgrado i commenti degli eruditissimi, o forse in grazia di quelli, nessuno riuscì a cogliere l’assunto preciso di Dante in questo lavoro; tanto spesso si contradice, tanto esce ne’ giudizj più inattesi. «Il vulgare italico, illustre, cortigiano (egli dice) è quello il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna; al quale i vulgari di tutte le città d’Italia s’hanno a misurare, ponderare e comparare». Sembra voglia dire che la lingua che si scrive è una

  1. Vulg. eloq. I, 15. Eppure già erano fioriti un Giovanni da Modena, un Anselmo e un Antonio dal Berrettajo ferraresi; e a Reggio diversi della famiglia da Castello, e un Gherardo che corrispose di sonetti con Cino da Pistoja; poi furono ferraresi lo Strozzi, il Cieco d’Adria, il Bojardo, l’Ariosto, il Beccari, il Guarino, il Testi, Cornelio Bentivoglio, il Varano, il Minzoni, il Monti.
  2. La dimostrazione di fatto può vedersi in Galvani, Sulla verità delle dottrine perticariane nel fatto storico della lingua. Milano, 1845, pag. 124 seg.