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scipione ricci | 495 |
calamità dei tempi ha fatto scordare questi titoli.... e poichè ella vuol regnare più sul cuore che sul corpo dei sudditi, niuna cosa tanto è in cui le bisogni persuaderli, quanto in ciò che appartiene alla religione». E soggiunge: — Quanto alle materie (delle riforme) l’Altezza Vostra non ci troverà cosa che non sia di sua competenza: o sono canoni proprj della Chiesa, fatti nei generali o particolari Concilj, o sono cose che riguardano la esteriore disciplina. In tutti i casi all’Altezza Vostra conviene, come protettore e difensore della Chiesa, il rammentare e proteggerne i canoni, e come sovrano lo stabilire quello che il bene di essa richiede».
Con ciò gli attribuiva anche la potestà di abrogare i canoni, e stabilirne dei nuovi, quando lo richiedesse il bene della Chiesa! — Solo dai buoni studj (aggiunge) può sperarsi una felice rivoluzione negli Stati; finchè gli studj saranno fatti secondo il sistema fratino e secondo le mire della Corte romana, i sudditi saranno ignoranti e superstiziosi, e addetti a Roma.... Si è dunque creduto bene l’ingiungere (negli studj) l’obbligo di tenere la massima importantissima della indipendenza della potestà temporale dalla spirituale. Se Vostra Altezza ha questo, può dire di aver tutto quello che è necessario perchè sia ben ricevuta ogni riforma ecclesiastica».
Allorchè Pio VI si lamentò che il Ricci, nel turpe processo delle monache pistojesi, avesse dato pubblicità ad impudicizie, che saria stato carità o prudenza ricoprire, Leopoldo chiamossene offeso, e dal ministro Piccolomini fecegli scrivere, sperava che, «fatte migliori riflessioni, darebbe ad esso prelato qualche contrassegno di propen-
l’ecclesiastica disciplina, delle umili rappresentanze, e per mio demerito non sono stato esaudito. Vostra eccellenza sa quante volte mi sono dato l’onore d’essere ad ossequiarla per parteciparle le mie più riverenti e fervorose istanze; sicchè confesso che nelle divisate contingenze mi trovo alquanto disanimato. Qualora poi venga assistito nell’esercizio del mio vescovile impiego dalla suprema autorità che vivamente imploro, m’incoraggierei molto, nè avrei più che desiderare. Con tal fiducia pregando V. E. a riprotestare all’imperial consiglio la mia più distinta venerazione mi pregio di rassegnarmi di V. E., ecc.». È del 1752. A proposito dell’abolizione della censura avendo il vescovo di Chiusi mosso alcun richiamo, fu obbligato ritrattarsi, e scriveva: «Sacra Cesarea maestà. Con estremo rammarico e cordoglio dell’anima mia appresi da sua santità le aspre doglianze avanzate dalla maestà vostra contro la mia povera persona, come che abbi avuto il temerario ardimento di offendere la di lei imperiale persona, mio augustissimo sovrano.... Mi riconosco in debito di presentarmi ossequioso al trono della c. m. v., ecc.».