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Ultimo generale de’ Gesuiti era stato Lorenzo Ricci: e i re, secondando bassamente lo spirito persecutore de’ liberalastri, cui non era bastato abolisse quella Compagnia, vollero che il papa tenesse prigione esso Ricci, il quale era reo di averla difesa sino all’estremo, e preferito vederla perire, anzichè consentire a snaturarla.

Restava a Firenze suo fratello Corso, il quale diede il proprio nome, poi la pingue eredità a un suo agnato, Scipione Ricci.

Questi volea dapprima entrare gesuita, allettato da una profezia che correva di san Francesco Borgia, che nessuno di quell’istituto andrebbe a perdizione; dappoi avviatosi per la carriera ecclesiastica, fatto auditore di nunziatura, indi vicario generale dell’arcivescovo Incontri, si condusse a Roma in occasione delle feste per l’elezione del papa Braschi, nella speranza di poter parlare al detenuto generale. Questi comunicava all’esterno coi soliti sotterfugi di qualche inserviente, e come il seppe giunto, scriveva a Scipione:

— Signor canonico rev. amat.

«Che buon vento l’ha qua portato? quante cose ho a dirle! per ora alcune: il latore del presente è il soldato che mi serve, ecc., ecc.

«Mi sta nel cuore una spina da lungo tempo. Temo che facciano spendere a Lei, a titolo di mia richiesta, mie voglie e mio sollievo, in cose che non chiedo e non mi si danno. Non incolpo veruno, e non so veramente a chi attribuire certi intrighi, ma è necessario ch’ella sia prevenuto... Non creda già ch’io sia un capo di fuorusciti. Sono stato trattato come tale, ma grazie a Dio non lo sono, ecc.».