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torquato tasso 419


Queste erano allucinazioni parziali; ma benchè avesse scritto «non convenire per le ingiustizie degli uomini i buoni ingegni avvilirsi, ma doversi separare dal vulgo con l’altezza dell’animo e con gli scritti, nei quali ha poca forza la fortuna, nessuna la potenza dei grandi», pure il Tasso non cessava di far lamenti o diriger suppliche in versi o in prosa agli amici o al suo oppressore.

Mai forse non aveva poetato sì nobilmente come in questa canzone al suo duca:

               O magnanimo figlio
                    D’Alcide glorioso,
                    Che ’l paterno valor ti lasci a tergo,
                    A te, che dall’esiglio
                    Prima in nobil riposo
                    Mi raccogliesti nel reale albergo;
                    A te rivolgo ed ergo
                    Dal mio carcer profondo
                    Il cor, la mente, gli occhi;
                    A te chino i ginocchi,
                    A te le guance sol di pianto inondo,
                    A te la lingua scioglio;
                    Teco, ed a te, ma non di te mi doglio.
                    
               Volgi gli occhi clementi,
                    E vedrai dove langue
                    Vil vulgo, ed egro per pietà raccolto,
                    Sotto tutti i dolenti
                    Il tuo già servo esangue
                    Gemer, pieno di morte orrida il volto,
                    Fra mille pene avvolto,
                    Con occhi foschi e cavi,
                    Con membra immonde e brutte,
                    E cadenti ed asciutte
                    Dell’umor della vita, e stanche e gravi,
                    Invidiar la vil sorte
                    Degli altri, cui pietà vien che conforte.
                    
               A voi parlo, in cui fanno
                    Sì concorde armonia
                    Onestà, senno, onor, bellezza e gloria;
                    A voi spiego il mio affanno,