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ovidio 397

glio la rimpiangeva, rammentando che ne annaffiava le glebe, e vi innestò alberi, da cui non coglierebbe i frutti1.

Sappiamo che un suo amico ne portava l’effigie sopra un anello, ma nessun ritratto autentico ne abbiamo. Nel 1674 si scoperse sulla via Flaminia il sepolcro de’ Nasoni, che fu illustrato dal Belloro. V’avea pitture, in una delle quali si suppose ravvisar il ritratto del nostro Publio, ma Ennio Quirino Visconti lo nega, attesochè la famiglia del poeta era l’Ovidia, non la Nasonia.

Pare vivesse fino al 17 di Cristo. Temeva l’immortalità, perchè lo costringerebbe a vagolare tra le ombre de’ Barbari2. Aveva desiderato che il suo cenere fosse dalla moglie richiamato in patria, e quivi deposto nel prediletto suburbano, scrivendovi: «Qui giacio, Nasone poeta, cantor de’ teneri amori, che perii pel mio ingegno. Pregami pace, o tu chiunque sia che amasti»3. Ma non l’ottenne. Sarà stato sepolto con qualche onore, ma che il suo sepolcro siasi poi trasferito in Polonia od in Sabaria, è favola da relegare colla penna sua d’argento che se ne custodisce in Bulgaria.




  1.                Non meus amissos animus desiderat agros,
                        Ruraque peligno conspicienda solo,
                   Quos ego nescio cui colui, quibus ipse solebam
                        Ad sata fontanas, nec pudet, addere aquas.
                   Sunt ibi, si vivunt, nostra quoque consita quædam
                        Sed non et nostra poma legenda manu.

    De Ponto, I, 8.

  2.                Atque utinam pereant animæ cum corpore nostræ,
                        Effugiatque avidos pars mea nulla rogos.
                   Nam, si morte carens, vacuas volat altus in auras
                        Spiritus, et samii sunt rata dicta senis,
                   Inter sarmaticas romana vagabitur umbras
                        Perque feros manes hospita semper erit.

    Trist. III, 3.

  3.                Ossa tamen facito parva referantur in urna,
                        Sic ego non etiam mortuus exul ero....
                   Hic ego qui jaceo, tenerorum lusor amorum,
                        Ingenio perii Naso poeta meo.
                   At tibi qui transis ne sit grave, quisquis amasti,
                        Dicere: Nasonis molliter ossa cubent.

    Trist. III, 3.