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390 | illustri italiani |
nella lingua de’ Geti1. Non l’abbiamo, ma ce lo dà egli stesso come pieno di abjette adulazioni, divinizzando Augusto, professando aver alzata a Tomi una cappella colle immagini di quello, di Livia, di Tiberio in argento e di Germanico e Druso; e tutte le mattine vi faceva preghiere o ardeva incensi2, e i forestieri chiamava a celebrarne il natalizio.
I Tomitani applaudirono quel poemetto; il che mostra non fossero poi così barbari: anzi Coti principe de’ Geti tolse a ben volere il poeta, e dai cittadini fu fatto immune dagli aggravj pubblici, fin coronato3; sebbene si dolessero del male che diceva del lor paese. Ond’egli protestava di avere sparlato de’ luoghi, ma non degli abitanti; anzi amare i Tomitani, più che Latona non amasse Delo; que’ Tomitani che aveano compatito a’ suoi mali quanto avrebbe fatto la patria Sulmona4.
Fra le opere che scrisse ncll’esiglio fu l’Ibi contro un falso amico, che s’industriava a recargli ogni danno; egli, che pur era scarco di ira, che si vanta di non aver usato la satira contro chi che sia5,
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Ah pudet, et getico scripsi sermone libellum
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His ego do toties cum thure precantia verba
Eoo quoties surgit ab orbe dies.De Ponto, IV, 9.
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Hæc ubi non patria perlegi scripta Camæna,
Venit et ad digitos ultima charta meos.
Et caput, et plenas omnes movere pharetras,
Et longum getico marmur in ore fuit.
Extant decreta, quibus nos
Laudat, et immunes publica cera facit.
Tempora sacrata mea sunt velata corona,
Publicus invito quam favor imposuit.De Ponto, IV, 9, 13, 14.
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Quam grata est igitur Latonæ Delia tellus,
Tam mihi cara Tomis.
Gens mea Peligni, regioque domestica Sulmo
Non potuit nostris lenior esse malis.De Ponto, IV, 14.
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Non ego mordaci distrinxi Carmine quemquam,
Nec meus ullius crimina versus habet.
Candidus a salibus suffusis felle refugi,
Nulla venenato litera mista joco est.
Inter tot populi, tot scripti millia nostri
Quem mea Calliope læserit, unus ero.Trist. VI, 563.