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Stagione infelicissima per l’Italia furono i settant’anni che i papi, abbandonata Roma, trasferirono la sede qua e là e finalmente in Avignone. Di là mal governavano la Stato pontifizio: sebbene sovrani, restavano o almeno pareano ligi ai re, in mezzo a’ cui paesi abitavano: onde meno ascoltata era la loro voce nell’insinuar la pace e regolare le pretensioni de’ varj principi. Nelle Romagne intanto i baroni aveano preso baldanza, e mancando il dominator supremo, ciascuno si licenziava ad atti violenti. Il popolo ne soffriva orribilmente, oltre trovarsi ridotto a miseria dall’essere scomparsa l’aurea ricchezza de’ prelati e de’ forestieri. Le bande di ventura, unica milizia di quel tempo, guastavano gli amici non men che i nemici: sicchè la povera Italia era corsa da genti d’ogni nazione, guerreggiando per l’anticesare Carlo di Boemia Boemi, Schiavoni, Polacchi, Croati, Bernesi; pel papa Spagnuoli, Bretoni, Guaschi, Provenzali; Tedeschi, Inglesi, Borgognoni pei Visconti. Roma sopratutto soffriva dalla lontananza dei papi, unica sua vita; trascurata la giustizia e l’amministrazione, le vie ingombre da rovine di rovine, le chiese cascanti, spogliati gli altari, i sacerdoti senza il necessario decoro de’ paramenti; signori romani faceano traffico de’ monumenti antichi, di cui si abbellivano le città vicine e la indolente Napoli1. Intanto inviperivano le fazioni dei Colonna e degli Orsini, tra i quali sce-

  1. «De vestris marmoreis columnis, de liminibus templorum.... de imaginibus sepulcrorum, sub quibus patrum vestrorum venerabilis cinis erat, ut reliquas sileam, desidiosa Neapolis adornatur». Così il Petrarca, dalle cui lettere desumo questa dipintura.