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Il paese demolito spaventevolmente dal quotidiano tiro nemico appariva contro quel rosso di nubi e di luna come un fantasma di disperazione. Il campanile smozzicato e qualche parte del castello più alta e più stranamente colpita dettero un’imagine biblica del Calvario: la più dolorosa.

In poco tempo il cielo da quella parte fu tutto come di sangue. Gli shrapnels scoppiando accendevano fiamme in forma di mani adunche insanguinate.

Per un momento allora un grido unico lungo represso sorse dalla truppa che parve anch’essa chiazzata di sangue.

Io mi fermai da un lato presso un ciglio, sentendomi, come in quell’altra notte di maggio, fra le vestigia di Roma, tremare di commozione ineffabile.

Che esercito era quello che saliva così sicuramente, senza lamenti, il suo calvario: senza consolazione di canti, con umiltà più che umana?

Che anime eran quelle che essendo purissime come quelle dei martiri santi, non avevano nemmeno l’ebbrezza di celebrare con la parola o col gesto il proprio martirio? ma anzi mute, quasi estranee al sacrificio, si trascinavano ai loro posti in quella infernale platea?

Chi le aveva educate a tanta rinunzia?

Forse una dura disciplina? No; poi che i loro superiori immediati erano fanciulli e i più vecchi eran buoni come padri!

Dunque un’idea di conquista, grande come una divinità coperta di gemme, li guidava alla vittoria o alla morte così placidi?