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che sorreggeva alla sua volta due scaglioni cilindrici. Ora i gradini sono tutti sconnessi ed un angolo del dado è crollato. D’innanzi a ciascun lato della base vedonsi sul suolo traccie d’un antico pavimento. L’altezza totale della costruzione supera di poco i 4 metri; mentre la sua Lase ha circa 5 metri di largo. I materiali di cui risulta non sono mattoni cotti ed argilla, come dice il Sapeto, ma pietre rozzamente squadrate con cemento di calce; vi hanno pure traccie di un antico rivestimento della stessa sostanza. G. Lejean assevera di essere penetrato nell’interno: Une sorte de chattière, egli dice, me permit de me glisser en rampant dans l’intérieur où je ne trouvai rien de remarquable1. Ma io, comunque guardassi attentamente per ogni parte, non vidi la minima apertura praticabile, ed anzi, osservando l’angolo più deteriorato del dado, mi son formato il concetto che questo fosse massiccio.

Per me credo fermamente che tale costruzione fosse in origine coperta da un tumulo, simile a quelli che sorgono sulle alture vicine, il quale fu disfatto posteriormente ed i cui materiali servirono, secondo ogni probabilità, ad innalzare le piccole tombe che circondano la torre di Desset. Questa mia opinione è confermata dall’esame ch’io feci di altri tumuli, in cui mi riuscì di scoprire sotto l’esterno rivestimento gli spigoli sporgenti di un mausoleo, verosimilmente della stessa fattura del sopradescritto.

Avrei vivamente desiderato praticare qualche scavo nell’interno del vetusto monumento, colla speranza di scoprire alcun dato relativo alla sua antichità ed alla sua storia; ma gli scarsi mezzi di cui poteva disporre non mi consentirono di tentare l’impresa, che richiedeva un certo numero d’uomini e parecchie giornate di lavoro. Coll’aiuto di alcuni Abissini che ci avevano accompagnati, disfeci non senza fatica uno dei più piccoli sepolcri del poggio di Desset, ma non vi trovai che piccoli rottami d’ossa umane, inutili per lo studio.

Le tombe dei re appartengono, secondo una tradizione locale assai oscura e confusa, ad un popolo chiamato Rom, il quale avendo meritato colla sua empietà il castigo divino, fu stermi-

  1. Guillaume Lejean, Le Sennaheit, Souvenir d’un voyage dans le Desert Nubien. Revue des deux Mondes, 1er juin 1865, pag. 14.