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«Già lingueggiando, ne lambivo il tetto.
«I servi spaventati, i commensali
«Famelici veduto avresti accorrere
«Chi la cena a salvar, chi ‘l foco a spegnere.

(trad. di Gargallo)


Un’antichissima tradizione, che si mantenne sempre viva e tenace nei beneventani, ìndica fino il luogo ov’era ai tempi della colonia romana l’osteria frequentata da Orazio. Essa, secondo la leggenda tradizionale, si apriva a capo della strada che si domanda del Pontile, e quindi poco lungi dalla Via Appia, e fa specie che in quel luogo appunto vi sia sempre stata, fino al recente dilatamento di quella strada, una bettola con ispaccio di vino. Una tale tradizione merita anche ai nostri giorni qualche fede, se si considera che essa dopo il volgere di circa due millennii è tutt’ora seguita da assai colti cittadini, e non fu mai combattuta dagli storici municipali, nè sfatata dagli eruditi che raccolsero avidamente le popolari tradizioni, e che illustrarono con sapienti ricerche i nostri patrii monumenti.

Fra gli uomini più degni di fama imperitura che fiorirono in Italia, in quel torno di tempo, è da noverare uno dei nostri concittadini, il celebre Orbilio Pupillo beneventano, famoso grammatico e maestro di Orazio, il quale nei suoi scritti lo chiama Plagosus a denotare che era un uomo austero, e dotato di maschia virtù civile.

Poche e imprecise notizie avanzano della sua vita. Nacque nell’anno 113 a. C. e, a quanto pare, di famiglia povera ma industriosa ed attiva. Tirato su dai genitori con educazione liberale, ebbe fin da fanciullo l’agio di frequentare le scuole ed i ludi letterarii del suo paese. All’età, ancora freschissima, di quindici o sedici anni lo incolse una disgrazia gravissima, giacchè in un solo e medesimo giorno, e da nemici probabilmente di famiglia, gli furono, per tradimento, uccisi amendue i genitori (L. Gamberale, vita di Orbilio Pupillo).