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I Sanniti quindi attesero la occasione propizia per mandare ad effetto il loro iniquo divisamento. Infatti non andò molto che gli Etruschi celebrarono in Volturno una solenne festa che fu protratta sino a tarda ora, dopo di che inebriati, secondo la loro usanza, di spiritosi liquori s’immersero in un profondo sonno. Allora i Sanniti, che spiavano vigili un tal momento, introdussero nella città i compagni sparsi nei boschi e nei campi d’intorno, e tutti col ferro nudo in pugno si recarono nei diversi punti della città, e penetrati per forza nelle case degli Etruschi, li trucidarono spietatamente, senza che un solo avesse potuto sottrarsi a quella nefanda strage. Un tal fatto acquistò nell’antica storia d’Italia quella trista celebrità che nelle storie moderne la famosa notte di San Bartolomeo. E in tal modo coll’infamata perdita di Volturno ebbe termine nel 333 di Roma la signoria degli Etruschi nella Campania.
Di poi i Sanniti, mutato il nome di Volturno in quello di Capua, volsero l’animo alla conquista di Cuma. Questa antichissima città italo-greca era stata edificata da una banda di Calcidesi a cavaliere d’un colle tra Linterno all’Ovest, e Miseno all’Est. Essa possedeva un porto nel mar Tirreno, e in quei tempi era non solo doviziosissima, ma assai potente in mare e in terra. Il magnifico e rinomato tempio di Apollo sorgeva eminente nella sommità del colle. Da questo tempio per oscuro penetrale si scendeva nell’orribile antro della Sibilla, tutto scavato nel monte, e composto di moltissime camere e grotte; nella maggior parte delle quali era eretto un piccolo tempietto, dove stava il tripode della Sibilla, la quale, per rendere gli oracoli, lavavasi prima in tre vasi di marmo collocati nel mezzo del tempio, e presa poi una stola traeva nel tempietto, dove dal tripode tutta convulsa e sudante profetava intorno alle umane sorti. Le sue fatidiche risposte erano o scritte sulle foglie, o date a voce nella bocca di una grotta, che comunicava col tempietto; ed allora queste uscivano rimbombando per moltissime spaziose porte dell’antro, le quali Virgilio, scrivendo da poeta, anzichè da storico, dice essere state cento.