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torsi, capitelli, bassorilievi, e tronchi di colonne di graniti e bigi, e rossi tebani, di africano e di cipollino che con tanto splendore la decorarono un tempo.

E a porre ad effetto il mio divisamento si aggiunse agli altri impulsi la calda parola del sindaco di quel tempo Cavaliere Pietro de Rosa, e tuttavolta non si venne a capo di nulla sol perchè l’opera non dava lusinga di un sufficiente guiderdone. E allora volsi l’animo a comporre, senza la speranza dell’aiuto altrui, la storia del mio paese, con proposito di non darmi vinto alla malagevolezza del lavoro. E studiando i nostri antichi monumenti, nonchè molti documenti che esistono nei nostri Archivii, e nel vagliare i fatti storici di Benevento mi avvidi che l’utilità d’una tale istoria non è circoscritta ai comuni, o alle provincie che composero l’antico Sannio, o il ducato longobardo di Benevento, e si può senza taccia d’orgoglio affermare, o ch’io m’inganni, che la nostra istoria ha benanche un’importanza, come or si direbbe, nazionale. Ma se tuttavia la cosa non fosse in questi termini, non mi torrei per questo dal mio proposito, avvegnacchè son convinto della verità della massima che quanto più un popolo si tien lontano dall’altezza che potrebbe aggiungere, tanto maggiormente giova richiamarlo agl’incliti esempi degli avi, non per futile orgoglio municipale, ma affinchè si provi di emularli in ogni maniera di morali e civili virtù. E perciò io credo che anche lo studio di antichi monumenti, metà corrosi dal tempo, d’informi macerie, e di consunti papiri, può riuscire proficuo con lo svegliare a nuova vita un popolo, che già venne in fama di sapienza e di coltura. E questo concetto ebbe in animo un poeta contemporaneo allorchè cantava:

     «Chi mai su quei sassi nell’alma inquieta
Non dice animoso: mi sento poeta?
La voce degli avi spirando mi va?

     Son quelle rovine non tenebre mute,
Ma chiudon faville di patria virtute.
Qual mente gagliarda svegliarle saprà?»