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Due anni all’incirca di questo protratto esilio trascorsero, due anni che mi sembrarono secoli. Ardente e impetuoso per natura, so appena dire come avrei sopportata una sì lunga lontananza se non mi fossi sentito certo che la fede di Bianca pareggiasse la mia. Per ultimo, mio padre morì. La vita quasi insensibilmente lo abbandonò. Mi tenni sempre nello stato di muta afflizione al suo fianco, e dovetti contemplare gli spasimi della natura spirante. Le sue ultime tremebonde, balbettanti voci erano benedizioni versate sopra il mio capo. Oh dio! in qual modo le vidi in appresso esaudite!
Poichè ebbi tributato debito onore ai mortali avanzi del genitore, e vedutili collocare nella tomba de’ nostri antenati, diedi alle mie cose domestiche tal sesto ch’io potessi con minor fatica governarle ancorchè lontano; indi imbarcatomi partii di nuovo, e col cuore che mi balzava in seno, alla volta di Genova.
Prospero fu il nostro viaggio; e oh! qual estasi mi rapì nell’alba di quel giorno in cui mi si pararono innanzi le boscose cime degli Appennini che quasi a guisa di nubi circondavano l’orizzonte. Una grata aura estiva increspava a seconda il flutto che ci traea verso Genova. Avvicinatasi a noi per insensibili gradi, surse dall’argenteo seno del mare, quasi creata da un incanto, la costa di Sestri, e con essa la serie di ville e superbi palagi che tutta abbellivano quella riva. Tornò il mio occhio a cercare quel ben noto punto, e potè finalmente di mezzo alla confusione di lontani oggetti discernere la villa che era soggiorno di Bianca, mero punto in quella unione di paesaggi, ma giunto che sorgea di lontano come stella polare di questo cuore.
In questo punto io tenni immoto lo sguardo per tutta una di quelle lunghissime estive giornate; ma oh qual differenza fra le sensazioni che nella mia andata, e or nel ritorno questa vista medesima destava in me! Or s’ingrandiva e s’ingrandiva ad ogn’istante a’ miei sguardi quel