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che giunto agli anni di non potersi aiutare da se medesimo, si era abbandonato a me come ad unico suo sostegno.

L’amor mio per Bianca acquistava nuovo vigore ogni giorno, dalla stessa lontananza, e il continuo meditare a lei scavava sempre più i solchi conduttori di una passione padrona già del mio animo. Io non facea intanto nuove amicizie, non conoscenze; nè cercava alcun de’ diletti che in una città, come Napoli, il mio grado e lo stato di domestica fortuna mi schieravano innanzi. I miei piaceri stavano nel mio cuore, concentrato a pochi oggetti, ma dimorante in essi con tutta l’intensità della passione. Sedermi vicino a mio padre, amministrargli le cose delle quali abbisognava, nel silenzio della stanza paterna pensare e pensare a Bianca, erano queste le abituali mie consuetudini. Se talvolta io cercava ricrearmi col mio pennello, io lo cercava per dipingere quella immagine che stava ognora presente alla mia fantasia. Io ne consegnava alla tela tutti gli sguardi, tutti i sorrisi, chè tutti mi stavano scolpiti sul cuore. Ho fatto vedere talvolta questi lavori a mio padre con la speranza di eccitare nel suo seno qualche interesse verso questa ombra dell’amor mio; ma troppo impoverito erane l’intelletto perchè a tali cose lo attraesse nemmeno una fanciullesca curiosità. Ogni lettera ch’io ricevea da Bianca era per me nuova fonte di solitario diletto. Queste lettere, è vero, divenivano a mano a mano più rare; ma le attestazioni d’invincibile affetto mai in esse venivano meno. Non dirò che spirassero quel calore spontaneo ed ingenuo onde Bianca mi spiegava, quando eravamo insieme, i suoi sentimenti; ma io ne diedi colpa a quell’imbarazzo che trovano le giovani menti nel ritrar se medesime su la carta. Filippo mi accertava ch’ella serbami inalterabilmente costante. Entrambi in fortissimi termini si lagnavano della prolungata nostra separazione, benchè rendessero giustizia a quella filiale pietà che mi rendeva immobile dal fianco del padre.

        Stran. mister. 3