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di un mondo sì conforme al carattere ch’io avea sortito dalla Natura. Mi era trovato, finchè vi stetti, così beato; in uno stato di sensazioni sì diverse da quelle che in me eccitava il convento, questa tomba de’ vivi. Io paragonava i volti delle creature che avea vedute piene di vigore, freschezza e giocondità con gli smunti, terrei, insignificanti volti de’ frati; la musica de’ villerecci balli col lento canto del coro. Se io trovai su le prime increscevoli gli esercizii del chiostro, allora mi erano divenuti insopportabili. Quella noiosa vicenda di obblighi monastici ammazzava il mio spirito; erano irritati i miei sonni dal molesto squillo della campana del convento, che quanto più spesso veniva rifranto dall’eco di quelle montagne, tanto più spesso mi toglieva al riposo la notte, al mio pennello il giorno, per andare ad assistere a qualche noiosa e sol meccanica cerimonia prescritta da quelle claustrali regole.

Non era io quel tale da lasciar passar lungo tempo tra il meditare e il mettere le meditate cose ad effetto. Il mio animo si era d’improvviso destato ed era già svegliata ogni parte di me. Curai la prima occasione di dare un tacito saluto al convento, e presi a piedi la volta di Napoli. Trovatomi appena in mezzo alle giulive e affollate strade di questa città, dopo avere ammirata la varietà delle animate scene che mi stavano intorno, il lusso de’ palagi, la magnificenza de’ cocchi e la pantomimica baldezza di quella mescolanza di popolazzo, credei sorgere dal sonno in mezzo ad un mondo incantato, e feci voto che forza di nessun genere mi avrebbe ricondotto alla monotonia del chiostro giammai.

Dovetti farmi insegnare la strada che conduceva al palagio di mia famiglia: perchè avendo lasciata Napoli da fanciullo, io non sapea più la situazione di esso. Mi costò qualche fatica, l’essere introdotto alla presenza del padre, perchè i servi sapeano appena che un ente somigliante a me fosse su questa terra, e la mia veste fratesca non perorava gran