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vincolo di società. Il loro ospizio medesimo parea fatto di per sè stesso allo scopo di destare tutte le tetre idee che accompagnano la solitudine. Situato questo convento in una cupa gola di monti, australi al Vesuvio, non era almen rallegrato da belle prospettive in distanza, chè tutte le chiudeano quelle sterili vulcaniche alture. Un torrente che precipitava giù dai monti strepitava contro le mura di quell’edifizio, intanto che le aquile strillavano intorno alle cime delle sue torri.
Era sì tenera, quando venni confinato in questa prigione, l’età mia, che perdei presto ogni distinta ricordanza delle scene lasciatemi addietro. Laonde svolgendosi la mia mente, desumea da questo convento e dalle sue vicinanze il concetto dell’Universo, e credea l’Universo un deserto. Così una intempestiva tinta di malinconia andò infondendosi nel mio carattere, e gli spaventosi racconti e di diavoli e di mali spiriti fattimi da quei frati atterrirono tanto la mia giovine fantasia, che ne contrassi quella facilità a ricevere le superstiziose impressioni, dalle quali non ho potute veramente liberarmi più mai. Parea che nel travagliare l’accensibile mia fantasia mettessero tanta cura, quanta per prendersi sollazzo di me ne avea adoperata la malignità, de’ servi nella mia casa paterna. Mi rammento tuttavia di quali spaventi costoro nudrirono la fervida mia immaginazione durante un traboccamento del Vesuvio. Tra noi certamente e il vulcano stavano i monti, ma il tremendo suo ribollire crollava i più saldi fondamenti della Natura; e i continui tremuoti minacciavano farci rovinare addosso le torri del nostro convento. Una lurida infausta luce stendessi di notte tempo sul firmamento, e rovesci di ceneri portate dal vento calmavano l’angusta valle in cui ci stavamo. I frati intanto parlavano della terra divenuta come un alveare sotto i nostri piedi; di correnti di lava liquefatta che sconcano pe’ suoi canali; di caverne di fiamme sulfuree ruggenti nel centro della medesima e abitate dai demonii e dai dannati; di golfi di