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Mio padre, come ho già detto, non mi vide di buon occhio in nessun tempo; ma in sostanza egli non mi aveva mai ben giudicato: mi credeva un caparbio, un capriccioso, un ente privo di cuore. La sostenutezza in vece de’ suoi modi, l’austerità disdegnosa delle sue occhiate, queste mi respignevano dalle sue braccia. Non ho mai cessato dall’averne presente alla memoria il ritratto, allorchè avvolto egli nella sua senatoria veste di seta, la facea cigolare col suo camminar pomposo ed altero. Questo fasto valse tanto a sgomentare la mia giovine immaginazione, ch’io non seppi mai avvicinarmegli con quella confidente affezione per lo più connaturale ai fanciulli.
Ogni affetto di mio padre era andato a collocarsi sul mio fratello maggiore. Questi doveva essere l’erede del titolo e delle dignità della famiglia: quindi tutto a lui doveasi sagrificare, e me pure non meno che l’altre cose. Era deciso ch’io dovessi dedicarmi alla Chiesa, e si credea troncare per questa via al mio mal talento e a me medesimo i modi o di rendere più grave il peso degli anni e delle cure a mio padre, o di mettermi in opposizione cogl’interessi di mio fratello. In quella giovanissima età pertanto, prima che la mia mente si schiudesse al mondo e ai suoi diletti, quando io non avea ancora conosciuto alcuna cosa oltre i recinti del paterno palagio, fui mandato ad un convento, cui soprastava in grado di superiore un mio zio, alle cure del quale venni interamente affidato.
Questo mio zio, ritirato affatto dal mondo, non ne avea mai apprezzati, perchè non gli avea mai assaporati, i piaceri, e ravvisava nella rigidissima negazione di sè medesimo la gran base della cristiana virtù. Egli pensava che i temperamenti d’ognuna fossero simili al suo, o volea, se non altro, che al suo si conformassero. Il suo carattere e le sue consuetudini prevaleano su la Congregazione da lui governata: onde la più malinconica e squallida schiatta di viventi non era mai stata veduta prima di questa unirsi in
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