Pagina:Irving - Lo straniero misterioso (1826).djvu/17


13

che umiliarsi, «Qual diritto ho io agli agi e alle ricchezze? (avrà talvolta bisbigliato fra sè medesimo). Qual diritto, finchè l’innocenza va vagando avvolta ne’ cenci e nell’abbiezione?»

Il tempo del carnevale arrivò, e io sperava qualche buon effetto da tanti argomenti di allegria che in tale stagione e in questa città come spontanei si presentavano. Io mi traeva seco lui in mezzo alla immensa calca di vari ordini che popolava la piazza di San-Marco. Noi frequentavamo i teatri dell’Opera, i ridotti delle maschere, le sale da ballo. Tutto indarno. Il suo malore non si dipartiva da lui, e ne crescevano i gradi. Egli si mostrava ad ogn’istante più torvo ed agitato. Spesse fiate, dopo essere tornati in compagnia da qualche carnevalesca gozzoviglia, io entrava nella sua stanza, e mi toccava trovarlo steso col capo in giù sopra un sofà, con le mani attaccate alla sua bella capigliatura, e leggere in tutto il suo aspetto i contrassegni di uno straordinario delirio.

Passò il carnevale; la quaresima sopravvenne; la settimana di Passione arrivò. Assistevamo una sera in un di quei tempii ad una delle solenni funzioni che correvano allora, mentre stava eseguendosi uno di quegli spartiti di musica vocale e stromentale, famosi in Italia, che era allusivo alla morte del Redentore.

Io avea notato altre volte quanto fosse prevalente su quell’animo il potere della musica; ma in tal circostanza straordinariamente lo fu. Allorchè una ricca armonia di note tutte empiva le maestose navate del tempio, parventi si accendesse di un ferver più che usato; volgea gli occhi all’insù tanto, che il bianco di questi solo vedessi; le sue mani stavano giunte insieme con tanta forza, che le dita s’improntavano su la carne. Ma quando si venne a quel tratto di musica che esprimeva la mortale agonia del Dio Uomo, la faccia del mio amico si chinò a gradi a gradi fino a toccargli il ginocchio; e allorchè risonarono per tutta