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sigli sul come condursi, cosa dire, e in qual maniera ricevere l’aspettato amatore.
Nè meno occupato di preparativi era il barone. Non avea per verità cosa alcuna precisamente da fare; ma egli era di sua natura un picciolo ometto furioso e sussurrone, che non potea starsi passivo intanto che tutto il mondo s’affaccendava. Correva da cima a fondo il castello con aria d’infinita ansietà; richiamava continuamente i servi dall’opera loro per esortarli ad usar diligenza; e ronzava in ogni sala e in ogni camera così oziosamente irrequieto ed importuno, come un moscone ne’ caldi giorni di estate.
Si era intanto ammazzato il più grasso vitello; aveano le foreste echeggiato del clamore dei cacciatori: la cucina era piena di vivande; le cantine ceduto avevano mari di Rhein-wein e di Ferne-wein; e fino alla gran botte di Heidelburgo erasi posta a contribuzione. Ogni cosa presta per accogliere il nobile ospite con Saus und Braus nel vero spirito della Germanica ospitalità — l’ospite tardava a comparire. Ore ed ore passavano. Il sole che avea versato i cadenti suoi raggi sulle ricche foreste dell’Odenwald, già già raro splendeva lunghesso le cime delle montagne. Il barone, salito sull’altissima torre, sforzava gli occhi nella speranza di pur cogliere qualche lontana vista del conte e del suo seguito. Credette una volta di vederli; già il suono dei corni veniva, ondeggiante dalla valle, prolungato dall’eco della montagna: una mano di cavalieri vedeasi lungi al basso, lentamente avvanzando nella strada; ma quando raggiunto quasi egli ebbero la falda del monte, d’improvviso svignarono in altra direzione. L’ultimo raggio del sole morì — i pipistrelli cominciarono a svolazzare nel barlume — la via si fece più e più buja alla vista; e nulla appariva in quella che si movesse, se non di tempo in tempo un qualche paesano che rivenia poltroneggiando a casa dal suo lavoro.
Nel mentre che in codesto stato di perplessità giaceva immerso l’antico castello di Landshort, altra scena interessantissima si passava in altra parte dell’Odenwald.