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Oprescu, nel suo libro, destinato all’iniziazione nel vasto campo dell’arte popolare, in cui tenta stabilire delle divisioni e delle caratteristiche, o nell’opera recente, pubblicata in inglese dalla rivista di arte The Studio, possono dare informazioni in proposito. Si trovano: la croce, la via smarrita, la foglia di ciliegio, i chiodi di garofano, le ghiande, le stelle, la libellula, che per il Romeno è «il cavallo del diavolo» (Miller-Verghi, p. 41 e sgg.), il ferro dell’aratro, la ranocchia, le zampe dell’oca, le chiocciole, la scala del gatto, l’ala dell’avvoltoio, il braccio dello stroppio, il pastorale, la cintura del pastore, la lampadina, la bisaccia del pastore, l’amo, la slitta, l’altalena, etc.

III.

Se questo stile unico, che arriva a riprodurre con la stessa combinazione di quadrati e di rombi un uccello, un cane, un cavallo, un boiaro del XVII secolo, col suo lungo abito alla turca, una donna moderna col parasole, si paragona con altri stili popolari, si può certo giungere a constatare delle somiglianze, reali o immaginarie, con la maniera con cui i Caraibi, i Polinesi, certi Africani, ornano i loro vestiti e i loro utensili’. Dirò anzi che qualche tessuto trovato negli ipogei egiziani o nelle tombe che racchiudono le bizzarre mummie del Messico antico, somiglia sotto certi aspetti, visibilissimi a colpo d’occhio, ai prodotti analoghi dell’arte popolare romena. Ma naturalmente non si tratta che del caso delle creazioni spontanee.

Però la somiglianza è sorprendente quando si considera l’arte dei villaggi nei paesi vicini al territorio romeno. Il costume del Banato si ritrova nell’antica raià turca della Serbia; il grembiule di Mehedinți si spinge oltre il Danubio ben avanti

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