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94 capitolo v


cortigiano del re francese Enrico III, e, sostenuto da questo, andava in Turchia per raccoglier la sua paterna eredità. Era a Venezia nel marzo del 1581 ed ebbe la sua audienza dal doge prima di imbarcarsi per Ragusa. Era un bel giovane, con lunga chioma; parlava francese ed italiano ed era in stato di trattare in iscritto non soltanto quei concetti ch’erano tanto pregiati alla Corte di Caterina de’ Medici, ma anche un inno a Dio che ci hà conservato Stefano Guazzo, nei suoi «Dialoghi piacevoli». Ottenne, più felice che i suoi rivali, la sede valacca, costruì chiese e palazzi, fece fonder cannoni e intrattenne una Corte in cui si ritrovavano anche Italiani, «cavaglieri», tra quali un certo Franco. Costretto dai Turchi, nel 1585, dopo due soli anni di regno, a rifugiarsi in Transilvania, scappò dalla prigione di Hust e apparve di nuovo in Italia, dove trovò anche questa volta ammiratori ed amici. L’accompagnava il suo segretario Francesco Sivori, Genovese. Abitava nella Cà Pozzo, «vecchia e marcia», che dovette abbandonar quando la Signoria gli mostrò il pericolo che poteva risultar per la sua persona dai tanti stranieri che concorrevano nella città. Passò qualche giorno a Mantova e Ferrara voleva far anche pellegrinaggi a Loreto ed a Roma poi tornò a Venezia, malgrado il divieto del Senato, finché, nel giugno del 1589, s’imbarcava su una fregata del governo per Costantinopoli, dove fù annegato nel Bosforo. Era partito ringraziando ed augurando alla città che, «sì come il Signor