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146 | capitolo vi |
zoni d’amore trovarono la loro ispirazione lo stesso Ianachi, poi i suoi due figli, Alessandro e Nicolò, e finalmente anche il nipote Iancu. Il primo scriveva biglietti italiani e parlò in questa lingua coll’Imperatore Giuseppe li a Corona di Transilvania e poi a Vienna stessa, nel 1782. I suoi versi accompagnanti le biografie dei Sultani rammentano i modelli italiani:
Perdette col dominio Osmano anche la vita
Senza pensarci:
Forse non ebbe chi meglio il consigliasse,
E fù dannato.
Se il suo coetaneo Iordachi Slătineanu tradusse l’Achille a Sciro, del Metastasio, lo fece dopo da una versione greca. Ma nello stesso Metastasio trovò il suo modello Iancu Văcărescu. Aveva passato qualche tempo a Pisa e prima a Viena, dove l’abate italiano era sempre stato un’ autore prediletto; la sua prima opera fù una «Primavera d’Amore» in cui si cantavano
- Ceres, Pan, Fauni, Silvani,
zefiri, rose, stelle e pastori. Nella letteratura italiana che preparò la patria nei cuori di tre generazioni, il quarto dei poeti Văcăreşti trovò il sentimento che lo fece scriver sul nuovo Codice del Fanariota Giovanni Caragea quei versi celebri:
- O potessimo riaver - quanto abbiam perduto -, qual mente resterebbe infeconda, — qual labbro starebbe più muto? - Allora questo povero corvo ridiventerebbe aquila ed ogni Rumeno saria Romano, grande in guerra e in pace.