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italorum sapientia 135

intelligibili queste voci Potenze ed Atti. Essi diffiniscono la sostanza cosa che è, cosa ch’esiste. Però io feci vedere nella Risposta (p. 106) quanto cotal diffinizione sia sconcia e contraria a sè stessa: confondere ciò che è con ciò ch’esiste, cioè l'essere e l’esserci; ciò che sta sotto e sostiene con ciò che sovrasta e s’appoggia; la sostanza con l'attributo; e finalmente l’essenza con l’esistenza. Di che poi nascono quelli cotanto impropri parlari: Ego sum, Deus existit: che io sono, e Dio ci è; quando Iddio propriamente è, ed io sono propriamente in Dio: che con molta proprietà di vocaboli le scuole dicono: Dio essere sostanza per essenza, le cose create esserlo per participazione. M’insegnino poi da qual altra metafisica hassi il Criterio, per lo quale nelle verità geometriche tutti uniformemente convengono: poichè non può darcelo la chiara e distinta percezione; perchè usandola essi in fisica, per quella la conoscenza delle naturali cose non sono divenute punto più scientifiche. Mi spieghino pure con qual chiara e distinta idea concepiscono essi la linea constar di punti, che non han parti; e quando non possono sopportare questa indivisibile virtù nelle cose reali, s'inducono uniformemente a ricevere il punto impartibile, e non più tosto definirlo minimo divisibile in infinito? Ma il punto diffinito impartibile ci dà quelle maraviglie dimostrate, che grandezze e moti incommensurabili, ritornando a’ principj, cioè a’ punti, uguagliano ogni disuguaglianza. E finalmente avrei voluto essere addottrinato, in quel granello di arena che io dissi nella Risposta (pag. 104), cosa sia quella che, dividendolo, ci dà e ci sostiene un’ infinita estensione e grandezza: se queste grandezza vi sia in atto, e ’l granello di arena sia attualmente infinito; o in sostanza e in virtù, per la quale risponda ad ogni quanto si voglia massima estensione? Era d’uopo prima dileguare queste cose, e farlemi vedere che son nebbie, e poi surebbe stato ragionevole il dire: il raffinato buon gusto del secolo, ec.

Ma lasciando il secolo, cioè i Cartesiani filosofi di questo secolo, ritorno a voi: e sia con buona vostra licenza lecito dirlo, che in replicarmi cotesto non mi fate ragione. Io mi servo de’ vocaboli di virtù e di potenze appunto come se ne servono i meccanici, appo i quali sono voci celebratissime: con questo però di vario, ch’essi l’attaccano a’ corpi particolari, ed io dico esser dote propria e sola dell’universo. Io nella Risposta (pag. 107) diffinii la virtù: lo sforzo del tutto, col quale manda fuori e sostiene ogni cosa particolare. E questo istesso seguendo il buon gusto raffinato del secolo; perchè parmi tanto dare conato a’ corpi, quanto alle insensate cose talento, appetito e voglia. Onde dissi apertissimamente (Cap. IV, § 1, pag. 72): Jam enim meliorum virtute physicorum illud disserendi genus per studia et aversiones naturae, per arcana ejusdem consilia, quas qualitates occultas vocant, jam, inquam, est e physicis