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E con tronchi accenti, raccontò quanto le era successo l’ultima notte di carnevale.
Annetta aggrottava le ciglia.
— Perchè non mi svegliasti?
— Non volevo disturbarti.
— Ed intanto ti sei messa nel rischio di vederti usare qualche violenza. Quel giovinotto poteva essere un birbante inseguito dalle guardie.
— Oh! mamma, se tu avessi veduto che fisonomia gentile...
— L’apparenza spesse volte inganna: intanto, lo vedi, non ha rimandati i tuoi abiti.
— I suoi valgono molto più.
Li svolse per mostrarglieli e nel far ciò un oggetto cadde con lieve rumore in terra. Annetta si affrettò a raccoglierlo. Era un portasigari di velluto, con sopravi ricamate in oro le iniziali D. e T.
Mentre stavano ammirandolo, entrò in negozio una specie di facchino, portando un grosso involto.
— Sta qui la signorina Maria? — chiese.
Annetta si avanzò.
— È mia figlia, che volete da lei?
— Consegnarle questa roba.
— So cos’è, posatela sul banco ed aspettate ho da rendervene dell’altra.
— Non ho avuto ordini in proposito — disse il facchino volgendole le spalle — a rivederci.
Annetta lo richiamò, ma invano. Allora si rivolse alla figlia, che rimaneva confusa, turbata.
— Guarda se sono i tuoi abiti.
Maria svolse il fagotto e gettò un lieve grido