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provato invano il ferro ed il fuoco contro la città protetta da un santo diritto; quando tanto peso di forza brutale, dovette cedere alla generosa audacia, all’eroismo dei prodi milanesi, che con tanto sangue pagavano la loro libertà; la coraggiosa popolana, affranta dalle fatiche, spossata da lungo digiuno, si ritrasse alla sua abitazione, in una di quelle poche case di Porta Tosa, che non erano state completamente devastate dalle fiamme e dal saccheggio. Per la prima volta, dopo tanti giorni di lotta, di energia, Annetta nell’entrare in quella casa fu assalita dallo scoraggiamento, da una muta disperazione.

Ormai ella avrebbe cercato invano nelle sue stanze il volto adorato del marito: non avrebbe più intesa la voce di lui, nè si sarebbero potuto rallegrare insieme della vittoria ottenuta. Di più non aveva un figlio che le ricordasse quelle care sembianze, un figlio in cui trasfondere tutto l’amore che aveva portato all’eroico defunto. Rimaneva sola al mondo.

Salì le scale a stento, sentendosi piegare le gambe, cogli occhi velati dalle lacrime. Ma ad un tratto ristette come sbalordita. Era giunta sul pianerottolo e dinanzi al suo uscio, stesa nel vano, eravi una bambina di forse due anni o poco più, di una bellezza angelica, vestita di bianco, ma tutta bruttata di sangue, immobile, cogli occhi chiusi, come se fosse morta.

Chi era? L’avevano uccisa su quella soglia? Vinto il primo moto di raccapriccio, Annetta sollevò la fanciullina nelle sue braccia, accostò il suo