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di portarla nella sua baita, con la scatola, le tavolozze, i pennelli e poi di sedersi sopra il truogolo rovesciato, vicino alla porta, per godere lo spettacolo del temporale che in alta montagna è magnifico e terribile.

Venne fino a mezzo il pianoro e si chinò dinnanzi la tela, per levar di tra i sassi, appositamente ammonticchiati, una grossa corda che l’assicurava.

Così ripiegato, s’accorse appena del ritorno delle vacche, guidate da Marianna; balzò invece in piedi, con le narici frementi, l’occhio luminoso e la fronte spaziosa trasfigurata per un pensiero, quando, dietro le grandi roccie acute e rossigne, il cielo si fendette per un lampo, e gli apparvero le nubi livide, rotte, e tutto un orizzonte di vette, che parevano guizzi di luce d’argento, o punte scure, piene di mistero e di paura.

Tutto ritornò buio, il vento, scossa la tela che diede un suono di tamburo, irruppe, fuggì, sibilò per le creste rocciose.

Il pittore attese vicino alla sua tela, guardando in cielo dove era guizzato il lampo: attese in mezzo al rimbombo del tuono, che s’era scatenato e che non accennava a diminuire: intravide le nubi aggrovigliarsi, correre, perdersi; qualche labbro di cirro, bianco, pastoso; qualche ala sfaldata di nuvola fuggire rompendosi per l’impeto del vento: attese, dilatando ancora più gli occhi, per poter capire più di paesaggio e di cielo; attese; fremente. Un lampo nuovo avrebbe