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sar forte di cuore, quando lo vedeva dentro di sè, bello! Gli parlava qualche volta, lo trasformava a parole, con moti che sembravano pennellate, esaltandosi: ma non era soddisfatto.

Mancava qualche cosa intorno alla figura accasciata, invocante; qualche cosa che la rendesse più vera, che facesse rabbrividire e nel medesimo tempo giustificasse tanta disperazione.

E questo qualche cosa non lo trovava mai, mai!

Aveva lasciato la città per fermare sulla tela la visione che gli fulgeva nell’anima, e il suo sogno pareva si fosse infranto sotto il nodoso bastone di Santino.

“Bestia gelosa!” proruppe il pittore alzandosi.

S’avviò verso il gruppo delle roccie ferrigne; lo raggiunse e guardò giù l’abisso pauroso e profondo; l’aveva osservato più volte, ma, in quel giorno, forse per il cielo coperto e minaccioso, gli parve più pauroso e più profondo.

Ritorno indietro, guardando il minuscolo pianoro incorniciato dalle baite, in mezzo al quale, pel vento, fremeva la sua grande tela assicurata al cavalletto. Veniva da lontano e pareva avvicinarsi lo scampanio delle vacche.

Le nubi in cielo si facevano più oscure; il Disgrazia era scomparso dietro una cortina cinerea.

Si preparava un temporale; lo facevano presagire brontolii lontani, sordi e qualche barbaglio dietro le cime dei monti, i quali, improvvisamente, apparivano neri, dentro un velario grigio, fitto e sparivano col subito morire del lampo.

Il pittore pensò di staccar la tela dal cavalletto,