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canza di tempo), fu attaccato alla corda nera, che lo doveva tenere in equilibrio sul fuoco, la quale a sua volta, si annodava ad un pezzo di legno, robustissimo, ficcato fra pietra e pietra del muro.

L’acqua, che aveva preso un colore lattiginoso, incominciò a brontolare, mentre le foglie delle ginestre si screpolavano scricchiolando, avvampando, quindi si facevan brace e carbone, e mentre sulle travi e sui sassi del tetto e delle pareti, si allungavano l’ombre, o batteva la luce a seconda dei capricci della fiamma.

Quando l’acqua diede i primi sintomi di ebollizione, il pittore lasciò il posto ad Omio, che, nato e cresciuto fra i monti della bergamasca, aveva succhiato, col latte materno, l’arte di far la polenta e di mangiarla. Questi afferrò con una mano il manico del paiolo, con l’altra un pezzo di legno che serviva da mestolo, e, fattasi versare mano mano la farina gialla, la mescolò magistralmente finchè non parve rapprendersi.

Io osservava tutti i particolari dal mio cantuccio, sembrandomi impossibile che quegli stessi artisti, i quali avevano dipinto un paesaggio pieno di poesia, per quanto selvaggia, si fossero trasformati in cuochi e sapessero all’occasione maneggiare così bene il mestolo e il pennello.

Ma, accanto a me, sentii come il brusio di una mano che cercava qualcosa fra i cenci; mi volsi, e, al lume del focolare che alternava gli sprazzi con l’ombre, scorsi l’amico Prada, che, tuffato mezzo braccio in un sacchetto, lo rimescolava, senza alcun risultato.