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vedere una riunione minuscola di ambe, disposte sopra una grande scalinata.

Anche dietro la cresta rossigna, che io supero lasciando la piccola conca nella quale faccio le mie osservazioni, trionfa il bianco: ha mille sfumature ed è venato dai fili nerastri dei crepacci fin verso metà montagna; più sotto c’è pietra, poi incomincia a pullulare qualche filo d’erba.

Là si vedono arrampicarsi le vacche, le capre, ma non si ode il concento delle loro campanelle; sono troppo lontane, si avviano forse verso la bocchetta di Togno, ove il pascolo è migliore; poi ridiscenderanno, perchè dopo di essa la strada continua solo fra sassi e ghiaccio fino alla capanna Marinelli, appollaiata fra le nevi dello Scerscen e della Bernina.

A fianco della cresta rossigna, sul lato sinistro, continua, con piccole conche e piccole alture, l’Alpe di Felleria, quasi sempre alla medesima altezza, duemila e cinquecento metri: nello sfondo sembra battere contro la Spondaccia, altra montagna piena di anfrattuosità e di paure, che s’abbassa quasi per facilitare l’entrata nella valle di Poschiavo.

Ma si rialza poi di nuovo, sempre fredda e rocciosa, per dar luogo ad un altro avvallamento chiamato passo Siguretta; da questo punto la montagna corre parallela a Felleria, fino che, piegandosi ad arco, s’unisce al ghiacciaio, ricordato più sopra e troppo pallidamente descritto.

In tal modo ho tentato di rendere il circolo di di vette che mi serra, ch’io domino in parte e dalle quali sono in parte dominato.