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ci sembrò più squisito di qualunque manicaretto; così che ci alzammo animati da forza nuova, promettendo a noi stessi di riposarci soltanto alla Foppa.
E si arrivò anche alla Foppa e si discese a Campo Moro, spianata verde circondata da ogni parte di monti di tutte le forme e di tutte le dimensioni. Si camminava da cinque o sei minuti nell’erba satura di rugiada, quando il mio compagno di viaggio, toccandomi nel gomito, si volse.
Mi volto anch’io e rimango maravigliato a guardare.
In fondo, spiccatissimo nel cielo, signoreggiando due cime verdi cupe, dominava il Pizzo della Disgrazia, fulgido nel candore dei suoi ghiacciai baciati dal sole.
L’effetto era imponente, grandioso; un pittore, che fosse stato capace di riprodurre in tutta la sua bellezza il paesaggio, avrebbe certo fatta la sua fortuna e assicurata la sua immortalità.
Lo dissi alla mia pseudo-guida francese.
“Lascia andare„ mi rispose Prada ridendo “se diventerò un altro Segantini, forse!...„
E si marciò ancora innanzi e, cosa incredibile e faticosa, si tornò ad issarci:
sì che il piè fermo sempre era il più basso,
poi si tornò a scivolar giù fino alla Gera e per ultimo si dovè ascendere sull’Alpe di Felleria, sotto il sole, per un sentierucolo da capre, men-