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tezza, che l’ingegnere avrebbe avuto tutto lassù, quando l’attenzione dei padroni di casa si rivolse verso un punto del Crestone, donde pareva discendesse qualcuno.
Il discorso morì, e il povero Piero, col povero non ingegnere se ne partirono come erano arrivati, l’uno filosofo sempre buono, pronto sempre a compatire, a giustificare, l’altro iroso come cerbero ringhiante.
Inutile aggiungere che il cerbero era io:
“A queste altezze, quando si ha la fortuna di avere una casupola, si ha anche il dovere di essere ospitali; hai veduto che cordialità nei montanari, nelle guardie di confine?.... è una vergogna!...”
“Senti,” mi risponde il filosofo “grazie, prima di tutto, perchè ogni tua parola è l’indice della grande amicizia che hai per me; tu non avevi bisogno nulla, era per me che chiedevi, permetti quindi che io, parte interessata, dia il mio giudizio sul contegno delle persone fortuitamente incontrate quassù... Esse non hanno fatto che usufruire di un loro diritto, quello di non essere importunate da sconosciuti; io avrei forse fatto lo stesso...”
“Io no, invece,” rimbeccai rosso, fermandomi sopra un terrazzino, formato dalla strada discendente “io, proprio no... e, senti, mi rincresce di una cosa...”
“Quale?”
Risi prima ancora di farla conoscere all’amico: “Quando mi hanno preso per l’ingegnere, avrei