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Non era poca fatica, ci si doveva tratto tratto fermare, perchè a Piero mancava il respiro, o perchè un punto più ripido degli altri richiedeva l’unione delle forze per essere superato.

Allora s’inerpicava, prima la guida; io poi spingevo su l’amico, egli, arrivato, protendeva una mano verso di me e m’issavo anch’io.

Così per un’altra ora buona.

Finalmente la fenditura erta incominciò a restringersi; si dovette mantenere una certa distanza fra noi, per aver modo d’evitare i sassi, che, smossi, franavano: eravamo sudati, affranti; ogni poco ci si fermava ed io improvvisavo delle solenni lavate di testa alla guida, che aveva smesso il sorriso e la posizione di piccolo infallibile; Piero solo era filosofo e accettava la sua parte di camminatore senza lagnarsi: a che avrebbe valso del resto?

Il gran canale sassoso e scosceso accennava a terminare: mi portai alla testa della comitiva, battendo un passo inverosimile, arrampicandomi quasi con rabbia, continuando in alcuni punti carpone, in altri ritto, per abbracciare con lo sguardo, rapidamente, il passaggio migliore e tentarlo.

La cima non poteva essere lontana; ogni slittamento, ogni passo perduto accresceva la rabbia sorda che mi divorava e raddoppiava le mie forze; salivo guardando indietro i compagni che mi seguivano, incoraggiandoli, più con l’esempio che con la voce.

Strano il sentimento che mi rodeva.