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si acciuffano per le costole, per le vertebre cervicali, qualcuno lancia femore, fibula, tibia, con tanto di tarso, metatarso e falangi, contro le cinque vertebre sacrali di un compagno, e, al colpo, vola il coccige da una parte e mezza dozzina di falangette dall’altra; è un intrico d’arti superiori ed inferiori, un batter l’un contro l’altro di teschi, come di caproni che cozzino, un ammucchiarsi d’ossa, in mezzo al quale, distinto, forte, s’ode sempre il macinare dei denti che non posano mai.

Dentro le cavità della bocca ogni sasso è un tartufo delizioso; i fili d’erba son filetti di pesce fritto, la terra fredda, friabile, diventa stracchino gelato; un tronco d’albero morto, assalito da quelle bocche affamate, si tramuta in lepre alla scozzese; gli scheletri, ingoiando ramelli, credono di gustare ale di dindo alla Guglielmo Tell; tutto quello che toccano di solido sembra loro cibo prelibato e finissimo, di liquido bevanda sopra tutte desiderata e preferibile. Così gli ingrassi lasciati dalle bestie sul monte sono per essi charlottes, frittelle, pasticci di mandorle alla francese; certe pozzanghere con ciuffi, piccioni in fricassea, vedono dappertutto scaloppini, bodini, ragottini, cromeschini, pudinghi, code di bue, orecchie di vitello, proboscidi d’elefante: tutte insomma le leccornie che deliziarono il loro gusto essi ritrovarono (beati loro) profuse tra la roccie, le zolle, le acque, e rinnovano tutti i godimenti| passati.

Poveri Ciacchi redivivi! o piuttosto povere