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l’ampia tunica bianca, come un romano nel peplo.

C’è chi, ogni tratto, si ferma; guarda fra l’onda dei sopravvenienti; riconosce forse qualche fratello elle divise con lui nella vita serena i manicaretti, gli intingoli, le leccornie di mille tavole imbandite; gli muove incontro; gli porge la mano, che viene stretta con forza, e le articolazioni crocchiano secche: un altro, molti altri vanno invece dinoccolati, come persone stanche; se avessero ancora di tra le costole, sotto lo sterno pulito, la trachea con le sue corde vocali, li sentireste lagnarsi con voce dolorosa:

“C’erano le lettighe una volta; i servi gallonati, incipriati, caudati, ne portavano; c’erano le carrozze una volta, soffici; tutto era piuma, cuscino; non mai il nostro corpo risentiva l’urto di un sasso, il sùbito trabalzo per una conca oltrepassata; c’erano tappeti alti e morbidi, una volta....”

Ad ogni crocicchio il biancore dei passanti si dilata, sono due o tre rivoli che si uniscono, che ingrossano; gli uni si confondono negli altri e proseguono tinche giunge un affluente nuovo; il rumore strano di tante ossa che si toccano, scricchiolano, hanno schianti e battiti e suoni loro proprii, con risonanze brevi dentro le cavità tubolari dove si sono essiccate le midolla; il moversi e lo sfregarsi di tanti gomiti ed anche fra di loro; il divaricarsi sonoro e crocchiante delle ossa alle capsule articolari, formano un concento macabro, che ha una lontana somiglianza con lo stormire e il dirompersi delle foglie e delle