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pensa, s’è armato di alpenstok, di picca, di corde, d’occhiali per la neve, s’è messo certe scarpe ferrate che sulle piastrelle squittivan come topi; non so come abbia dimenticato gli sky: poi, quasi non bastasse, su, a spalla, una grande bisaccia d’alpinista zeppa d’ogni ben di Dio, e su anche, sul petto, assicurato con la fune, uno di quei sacchi foderati di pel di martora che adoperano le guardie di confine; e su ancora, e finalmente, a coprir tutto, un ampio mantello impermeabile color oltremare.
Noi siamo stati a vederlo partire sul piazzale; era così gonfio che teneva tutta la strada, e così ridicolo, con quei due stecchi per gambe che gli uscivan da disotto l’impacco voluminoso, che pareva un cetaceo: laggiù poi, allo svolto...” e mi mostrò il punto preciso da una finestra “che è che non è, incespica e lo vediamo ruzzolare, come una botte. Poveretto! — E Gino B., lo conosci? quell’allampanato, vestito di nero, con la caramella, il ciuffo, i polsini schiacciati ad elisse che gli vengon fino sull’unghie?
Neppur quello?
È un musicista, così dice; però non fa che parlar male di tutte le musiche, fumare e rompere stecche di bigliardo...”
Ma ecco Ninì, rimasta alla finestra, battersi col ventaglio la fronte...
“È vero! il mio latte!...”
“Il tuo latte?” ripetei sorridendo...
“Sì, sì!” e giù per le scale, ella prima, io dietro, e con noi un bisticcio di affermazioni e di richieste.