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229-258 CANTO XIV 43

giunse pel mare a Lemno, città del divino Toante.
230A Lemno s’imbatté nel Sonno, fratel della morte,
e porse a lui la mano, cosí la parola gli volse:
«Sonno, di tutti i Numi signore, e degli uomini tutti,
come altre volte ascolto mi desti di ciò ch’io ti chiesi,
ascolto anche ora dammi: da me ne avrai grazia perenne.
235Sotto le ciglia a Giove sopisci le fulgide luci,
súbito, appena seco giaciuta in amore io mi sia;
e un trono avrai scolpito nell’oro, bellissimo, eterno.
Per te lo foggerà Efèsto, il mio figlio ambidestro,
con sottile arte; e sotto porrà lo sgabello, su cui
240potrai poggiare, quando banchetti, i tuoi nitidi piedi».
     E il Sonno blando, a lei rispose con queste parole:
«Era, Dea veneranda, figliuola di Crono possente,
altri, chiunque fosse, dei Numi che vivono eterni,
agevolmente sopire potrei, se pur tu mi dicessi
245l’acque d’Ocèano, del fiume ch’è origine a tutte le cose.
Ma farmi presso a Giove, di Crono al figliuolo, e sopirlo,
non oserei, se pure comando da lui non ne avessi.
Un altro tuo comando già scaltro m’ha reso, altra volta,
il dí che quel figliuolo di Giove dal cuore superbo
250si mise in mar, poi ch’ebbe distrutta la rocca di Troia.
Allora io ben sopíi la mente all’egíoco Giove,
ché sopra lui soave m’effusi; e tramasti malanni
tu contro il figlio suo, suscitandogli sopra, nel mare,
orrida furia di venti, gittandolo a Coo popolosa,
255lungi da tutti gli amici. Ma desto, il figliuolo di Crono,
infurïò, maltrattò tutti i Numi qua e là per la reggia;
e specialmente me cercava; e scagliato m’avrebbe
dall’ètra in mar, distrutto, se me non salvava la Notte,