fine alla zuffa. Nel mare spingiamo allor tutte le navi: 80che non è scorno sfuggire, sia pure di notte, al malanno».
Ma bieco lo guardò, Ulisse, cosí gli rispose:
«Quale parola, Atríde, t’uscí dalla chiostra dei denti?
Oh sciagurato, ad altri guerrieri, dovresti, a codardi
essere duce, a noi non già, destinati da Giove 85sin da fanciulli, a penare nel duro travaglio di guerra,
sino a vecchiaia, sinché ciascuno di noi cada spento.
Dunque, tu vuoi lasciare la bella città dei Troiani,
per cui tanta fatica, per cui tanto pianto si volse?
Taci; ché nessun altro dei Dànai questa parola 90oda, che mai non dovrebbe uscir dalla bocca d’un uomo
che discernesse bene fra sé ciò che dire è opportuno,
che fosse re di scettro, a cui tanta gente obbedisse
quanta è quella a cui tu comandi, signor degli Argivi.
Solo di biasimo degno mi par ciò che pensi e che dici, 95che ci consigli, mentre piú arde la zuffa di guerra,
trarre le navi nel mare, perché dei Troiani la brama
anche piú piena riesca, sebbene prevale già tanto,
o sopra noi s’abbatta l’estrema rovina: ché quando
veggano tratte in mare le navi, combatter gli Achivi 100piú non vorranno, e a guardare, di pugne oblïosi, staranno,
e il tuo consiglio li avrà perduti, o signore di genti».
E a lui cosí l’Atríde, signore di popoli, disse:
«Ulisse, in fondo al cuore mi giungi con l’aspra rampogna;
ma io non ho già detto che contro lor voglia gli Achivi 105debbano spingere in mare le navi coperte di banchi.
Ora si faccia avanti chi offra un consiglio migliore,
sia pur giovine o vecchio: ché io volentieri l’udrei».
E allor disse cosí Dïomede, possente guerriero: