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409-438 CANTO XXII 243

pareva, a udire tanti lamenti, che tutta l’alpestre
410Ilio, dai suoi fastigi crollasse, consunta dal fuoco.
E trattenevano a stento le turbe il vegliardo accorato,
che delirava, che uscire volea dalle porte Dardanie,
e rotolandosi giú nella polvere, tutti implorava,
chiamando ad uno ad uno per nome: «Non mi trattenete,
415sebben di me vi dolga, lasciatemi, amici, che solo,
esca da queste mura, che ai legni vada io degli Achivi,
a scongiurar quell’uomo feroce, nemico del bene,
se l’età mia, se questa vecchiaia lo induca a riguardo,
a pïetà: ché un padre vegliardo ha pur egli: Pelèo,
420che gli die’ vita e lo crebbe, perché della gente Troiana
ei divenisse il flagello: niuno ora soffrí tante pene
quante io ne soffro: tanti fiorenti figliuoli m’uccise!
Ma, sebben cruccio io n’abbia, non tanto di tutti io mi dolgo,
quanto d’un solo, e la pena mi trascinerà giú nell’Ade:
425d’Ettore! Almeno poteva morire fra queste mie mani,
ché ci saremmo allora saziati di lagrime e pianti,
la sventurata madre, che a luce lo diede, ed io stesso!».
     Questo diceva fra pianti: gemevano tutti i Troiani.
Ed Ecuba levò fra le donne il suo lungo lamento:
430«Figlio, misera me, dove andrò col mio fiero dolore,
ora che tu sei morto? Tu eri, di notte e di giorno,
l’orgoglio mio, per questa città: ché il sostegno di tutti,
uomini e donne, in Troia, tu eri, che al pari d’un Nume
te riguardavano, e in te possedevan rifugio sicuro,
435mentre eri vivo: adesso t’han colto la Parca e la Morte».
     Cosí dicea piangendo. Ma nulla sapeva la sposa
d’Ettore ancora: ché niuno venuto era a darle l’annunzio
ch’era lo sposo suo rimasto fuor delle mura.