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290-319 CANTO II 37

290è, con le mani vuote tornar dopo indugio sí lungo.
Pazienza, amici miei; restate anche un po’, che si sappia
se vere cose il vate Calcante predisse, oppur false.
Ché questo noi sappiamo di certo, e attestar lo potete
ben voi, quanti rapiti non foste dall’avide Parche.
295E ieri fu, ier l’altro! Convennero in Aulide i legni
d’Acaia, che malanni portavano a Priamo e ad Ilio.
E noi, sopra gli altari, vicini ad un’acqua sorgiva,
immolavamo ai Signori d’Olimpo perfette ecatombi,
sotto un bel platano, donde sgorgava purissima l’acqua.
300Quivi un portento apparve: un drago dal dorso sanguigno,
orrido: Giove stesso l’aveva sospinto alla luce.
Balzò di sotto l’ara, strisciò verso il platano. Quivi
erano i teneri figli d’un passero, ancor senza voce,
sopra l’estremo ramo, nascosti nel fitto fogliame:
305otto eran essi; e nove la madre dei piccoli alati.
Tutti li divorò, che gemevan con pígolo triste.
E svolazzava ai figli d’intorno, la madre, e piangeva.
Snodò le spire il drago, la strinse, fra i lagni, ad un’ala.
Ma quando ebbe cosí divorati i figliuoli e la madre,
310il Dio che spinto a luce l’avea, di lui fece un prodigio:
ché lo converse in pietra, di Crono il saggissimo figlio.
Meravigliati noi stavamo di tale portento;
e poi ch’ebbe il prodigio turbate le sacre ecatombi,
súbito prese a parlare Calcante profetici detti:
315«Perché restate, Achei dalla florida chioma, in silenzio?
Questo prodigio a voi mostrava il saggissimo Giove,
che tardo effetto avrà, ma significa gloria immortale.
Come vorato ha il drago con otto pulcini la madre,
e nona fu la madre che dati li aveva alla luce,